Corazzare o anestetizzare il cuore non è la soluzione giusta
Dal vangelo secondo Luca (Lc 21,25-28.34-36)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
In questa prima domenica di avvento dell’anno C la liturgia ci fa ascoltare un puzzle di versetti del discorso escatologico di Luca. Il luogo in cui Gesù pronuncia il discorso è il tempio di Gerusalemme e l’avvenimento futuro da cui prende il via è la distruzione dello stesso complesso religioso nell’anno 70 ad opera delle truppe romane durante la prima guerra giudaica.
Il testo ci fa entrare in un vissuto ambivalente riguardo al futuro e a una percezione di confusione e di paura. La liberazione vicina e la venuta del Figlio dell’uomo (sostenute dalle «promesse di bene» e dall’immagine del «germoglio» nel libro del profeta Geremia) fanno contrasto con l’angoscia e l’ansia dei popoli, che vedono i segni spaventosi dentro la storia e che, dice il vangelo, addirittura «moriranno per la paura e l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra».
Ad una prima lettura sembra un’esagerazione. Eppure, se ci pensiamo, questo tempo inquieto nel vivere il presente e angosciato nel pensare il futuro non è molto diverso da quello che stiamo vivendo noi. Perfino nei sintomi e nella fatica di vivere che produce nelle persone. Pensiamo al disagio sociale, alla sofferenza psicologica e alle fragilità quotidiane causate dal periodo della crisi pandemica in tante persone, specialmente ragazzi e giovani. Di fronte al seppellirsi in una camera per nascondersi dal mondo minaccioso e angosciante, non ci sembrerà troppo strano quel “morire per la paura e l’attesa di ciò che dovrà accadere” raccontato nel vangelo.
Gesù, in questo contesto, inserisce una esortazione: non rendete pesanti i vostri cuori. Oggi, e forse anche al tempo di Gesù, abbiamo due reazioni nei confronti di una vita che ci sembra incattivirsi e perdere i punti di riferimento a vista d’occhio, ormai non solo da una generazione all’altra, ma da un anno all’altro.
La prima è di corazzarci e di incattivirci a nostra volta. Per non soccombere come tanti e non farsi ferire dentro, al centro e al cuore della nostra persona, dalla vita, molti teorizzano e praticano un egoismo e un utilitarismo come legittima difesa e un “cattivismo” e una paura nei confronti del prossimo come necessaria difesa e chiusura su di sé e sulla propria identità. Ma corazzare il cuore significa indurirlo e appesantirlo, escludere da esso ogni empatia, tenerezza e misericordia nei confronti del fratello e della sorella.
L’altra reazione prevede di anestetizzarsi per non provare dolore. Gesù individua alcune tipologie. Le ubriachezze svelano un movente, spesso inconscio, di ogni dipendenza: si assume una sostanza, come si è preda, in maniera compulsiva, dell’azzardo perché questo ci anestetizza nei confronti delle ferite e delle inquietudini; negli anni settanta ci si raccontava che lo scopo dell’uso di sostanze era l’apertura a nuove esperienze e percezioni, oggi ci si droga spesso per chiudersi e anestetizzarsi. Per non pensare e per anestetizzarsi nei confronti della vita non è strettamente necessario assumere sostanze psicotrope, ma, ci dice il vangelo, è sufficiente disperdersi e dissiparsi in tante cose, consumi, esperienze o anche “drogarsi” di lavoro e di «affanni della vita» (il concentrarsi su una propria occupazione è una gran medicina quando si ha un lutto o un dolore, ma come ogni medicina, può diventare un veleno se si esagera).
Che convenga attendere consapevolmente e attivamente «il germoglio giusto» e «la liberazione vicina»?
Gesù si serve del linguaggio apocalittico, quello proprio di una corrente spirituale che cercava di far rinascere nei credenti la speranza, soprattutto in tempi di prova, di persecuzione e di tenebra.
Enzo Bianchi
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Corazzare o anestetizzare il cuore non è la soluzione giusta
In questa prima domenica di avvento dell’anno C la liturgia ci fa ascoltare un puzzle di versetti del discorso escatologico di Luca. Il luogo in cui Gesù pronuncia il discorso è il tempio di Gerusalemme e l’avvenimento futuro da cui prende il via è la distruzione dello stesso complesso religioso nell’anno 70 ad opera delle truppe romane durante la prima guerra giudaica.
Il testo ci fa entrare in un vissuto ambivalente riguardo al futuro e a una percezione di confusione e di paura. La liberazione vicina e la venuta del Figlio dell’uomo (sostenute dalle «promesse di bene» e dall’immagine del «germoglio» nel libro del profeta Geremia) fanno contrasto con l’angoscia e l’ansia dei popoli, che vedono i segni spaventosi dentro la storia e che, dice il vangelo, addirittura «moriranno per la paura e l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra».
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Gesù, in questo contesto, inserisce una esortazione: non rendete pesanti i vostri cuori. Oggi, e forse anche al tempo di Gesù, abbiamo due reazioni nei confronti di una vita che ci sembra incattivirsi e perdere i punti di riferimento a vista d’occhio, ormai non solo da una generazione all’altra, ma da un anno all’altro.
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